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Roberto BernabòFoto di Nicola Gnesi
Nella sua conversazione con Roberto Bernabò, Maggi ci racconta della sua formazione, delle sue collaborazioni, ma anche della politica e del suo rapporto con il marmo, fatto di pathos e poesia.Quando ci vediamo – via Skype, nel modo in cui la pandemia ci ha costretto a gestire le relazioni sociali – Renzo Maggi mi accende la memoria. È un flash folgorante. Quel volto scolpito dai segni forti che esaltano i diversi elementi, lo rivedo lì, in un quadro di Virio Bresciani che ho appeso nel salotto.
Virio era un pittore pietrasantino, introverso e solitario, indagatore delle profondità dell’anima umana, che ci ha lasciato nel 1990. Forse l’affinità finisce qui, dentro quel ritratto, perché Renzo Maggi oggi nei suoi 76 anni vissuti nella campagna di Querceta è un uomo che ama la vita, che sogna. Che cerca nella pietra nuovi racconti dell’umanità. Illuminato dall’amore di Elena – “è tutto nella mia vita, mi ha dedicato intelligenza, bellezza, dedizione; se non avessi avuto una persona che amasse l’arte e mi spronasse nei momenti duri non so cosa sarei oggi” – trasmette passione, luce, calore.
Ma mi vien da pensare, via via che parliamo, che anche lui ha dovuto faticare per conquistarsi nella sua terra la dimensione di artista che gli compete. Perché Pietrasanta e la Versilia, nella loro provincialità, finiscono per inchinarsi alla dimensione artistica del forestiero piuttosto che a quella di chi nasce nel proprio grembo. Forse perché scalpellini, ornatisti, scultori – come si dividevano, semplificando, in una sorta di scala sociale delle competenze – hanno sempre dato mani e sapienza tecnica all’artista, ma pensandosi come altro, escludendo in fondo la creatività dall’orizzonte del proprio mestiere.
Così ritrovo un tratto che torna a unire non solo nel quadro ma nella vita Virio e Renzo.
Il viaggio nell’arte con Renzo Maggi non può che partire dal ragazzino che respira marmo e bellezza da sempre. Dalle sue radici in questa terra che da Michelangelo è cave e arte. Una matrice che per qualche decennio, nel secolo scorso, si è smarrita inseguendo la produzione industriale. E oggi ha ritrovato un equilibrio intrecciando la tecnologia con le nuove espressioni della cultura.
Roberto Bernabò: Quando ha sentito dentro di sé che avrebbe voluto fare l’artista? C’è un inizio dentro una vita con tante facce come la sua?
Renzo Maggi: Mio nonno materno era capoguardia sulle cave dell’Henraux; quello paterno aveva affittato una cava sopra Massa. Mio padre invece era uno scalpellino specializzato. Il suo sogno era di avere tre figli maschi e che uno facesse lo scultore. Istituto d’arte e Accademia erano lo sblocco di classe e il sogno. Io a 5-6 anni aiutavo a lucidare con la pomice i vasetti di marmo o le lettere sul tavolo di cucina. Questa era la mia infanzia in un mondo di forti sentimenti e uno stile di vita sobrio. Un mondo potente che ti formava nella dignità del lavoro.
R.B.: La storia della sua formazione è un cammino nel mestiere che prosegue con gli studi e poi la vita nella bottega artigiana. Quanto è stata importante?
R.M.: È stato tutto. A 15 anni, mentre frequentavo l’Istituto d’arte, su consiglio del professor Franco Miozzo in estate mi presentai allo studio dello scultore Leonida Parma, Leò. Ecco, quello è stato il luogo della mia formazione: professionale, culturale e politica. Sono stato tre anni a modellare l’argilla. Facevo copie dei grandi del passato, studiavo l’anatomia. Ma è stato molto di più: mi sono preso ciò che rimaneva dell’atmosfera delle botteghe rinascimentali. Eravamo concentrati sulla bellezza e io “frustavo” i libri, Leopardi, Foscolo, Dante. Ascoltavo Rachmaninov, andavo a vedere i film che mi consigliavano. E passavo il tempo con Romano Cosci, l’aiutante principale di Leonida: aveva sei anni più di me e sarebbe diventato uno scultore famoso.
R.B.: Crescere nella bottega, diventare grandi presto e avere il coraggio di andarsene da Pietrasanta a 19 anni.
R.M.: Sì, lo scultore Vincenzo Gasperetti cercava per il suo laboratorio a Milano una persona per modellare per il conio del Brasile medaglie che celebravano grandi pittori fiamminghi. Si modellavano su plastilina. Era un lavoro bellissimo ed ero ben pagato. Milano è stata una scuola, io ero un ragazzo magro di provincia e, senza mitizzare, pensai: “Accidenti, che bei giri.”
R.B.: Questa esperienza milanese la porta in Svizzera a modellare manichini. Mi racconti quel lavoro.
R.M.: Vado a realizzare manichini d’alta moda per la fabbrica Schläppi AG, in contatto con le riviste di moda. Lavoravo con modelle dai corpi bellissimi. Ma, per carità, io con le donne non ci capivo niente. Sono stati quindici anni in cui sono stato tutto concentrato sulla bellezza. Facevo il modello in creta e poi venivano riprodotti quasi come pezzi unici. Era la tradizione dei manichini da vetrina che si era diffusa in Francia nella seconda metà dell’Ottocento. E li facevamo per le vetrine dei grandi magazzini in Germania, Francia, Usa.
R.B.: Questo lavoro ha segnato di sicuro il suo rapporto con il corpo umano e con la bellezza. Ma la Svizzera, grazie alla politica, è stata molto di più nel cammino della sua formazione.
R.M.: Lì ho conosciuto l’estetica sublime del nudo che mi ha contraddistinto sempre. Io non concepisco la bellezza femminile in modo carnale, ma come le antiche Veneri preistoriche è per me la grande madre. Poi mi sono arricchito visitando i grandi musei, conoscendo l’arte.
La Svizzera è stata anche impegno politico. Mi iscrivo al Partito comunista di Zurigo insieme a molti italiani. È l’epoca dell’eurocomunismo. Divento segretario della sezione e direttore, dal 1977 al 1981, del quindicinale “Realtà Nuova.” La politica mi appassiona con il sogno di un socialismo dell’uguaglianza. Io ero un riformista contro le dittature. E anche contro gli schematismi nell’arte. Quel partito non era oscurantista ma ispirato dalla speranza.
La passione politica nasceva dagli anni nella bottega di Leonida e poi dal confronto al tempo di Milano con lo scultore Gigi Supino che mi ha fatto leggere da Tolstoj a Dostoevskij. In Svizzera, da emigrante di lusso, mi sono invece innamorato della poesia russa, di quella francese e di Shakespeare. E oggi, quando leggo i contemporanei avverto subito un altro spessore e me ne sto lontano.
Ecco, questa era la mia Svizzera e la vita a Zurigo. Poi nel 1992 torno a Pietrasanta con Elena e con mio figlio Ariele di un anno. Faccio il consulente di un’azienda svizzera di design. Dopo cinque anni finisce tutto e allora definitivamente scelgo la strada della scultura. Faccio arte funeraria, riprendo a fare volti, a incidere. Acquisisco una conoscenza tecnica profonda degli attrezzi che mi ha poi consentito una straordinaria libertà di espressione. Come un pianista che per eseguire Chopin deve suonare dieci ore al giorno, io ho appreso la tecnica e oggi posso scolpire in diretta. Traccio con il carbone un disegno sulla pietra e mi lascio andare ai sogni. Insomma, riprendo con forza e ostinazione un cammino che avevo iniziato molti anni prima. A Zurigo avevo già scolpito parecchio. Avevo un piccolo studio in centro, conoscevo gente, ero un personaggio. Sono tornato qui, nella mia Versilia, ad essere un anonimo scultore.
R.B.: L’incontro con l’Henraux, che è la storia del marmo e che vive una stagione nuova, mi pare rappresenti un’altra fase della sua vita. Come nasce questa relazione feconda?
R.M.: Nel 2003 Paolo Carli diventa l’azionista di riferimento di Henraux. Io mi presentai a una festa sulle cave con il primo catalogo di una mostra del 1999 a Populonia. Parlammo e fu amore a prima vista. Da lì iniziammo a collaborare, sperimentando ad esempio la produzione delle complesse sculture di Tony Cragg quando ancora non c’era la robotica. Lui voleva far crescere l’Henraux con il mito di Erminio Cidonio, di quegli anni Sessanta in cui l’azienda fu un polo internazionale della scultura contemporanea. L’idea insomma di una fabbrica che è anche un cuore pulsante della cultura di un territorio. Accanto alla lavorazione tradizionale del marmo, Carli ha chiara la necessità del collegamento con l’arte. Sa cosa il marmo può dire, ne conosce la potenza espressiva. Mentre negli anni era stato oltraggiato, con le marmette lucidate, venduto a meno della ceramica. Quella materia che è la storia dell’umanità! Dal Partenone e dalle sculture dell’Egitto parte la cultura mediterranea con Lisippo, Fidia, uomini che hanno plasmato il nostro mondo.
R.B.: La lavorazione del marmo che non è solo tecnica, ma è cultura, è respiro del tempo. Che innova nella tecnologia ma ha un’anima, impasto di storia e di presente. Ecco, direi che Maggi dentro questo contesto industriale è il soffio di pensiero che mantiene uniti i mondi.
R.M.: Mi fa piacere la definizione. Vede, da un decennio è arrivata la robotica sempre più sviluppata. E Carli ha investito su robot e ingegneri che conoscono la possibilità di queste macchine. Ma al tempo stesso ha creduto negli scultori che arrivano da tutto il mondo; ha creato il Premio Henraux, la Fondazione, la rivista. E il fondamentale collegamento con il design che si respira nello showroom. Così, il marmo torna materia pregiata e la bellezza il valore assoluto.
Oggi l’Henraux mi ha superato: macchine nuove, tecniche sofisticate, razionalità, ordine, pulizia. Mi sento dentro un mondo nuovo che faccio fatica a penetrare. Perché io rimango uno scultore che lavora con le mani. Ma l’uomo è immortale perché ha il pensiero. E io mi alzo ogni giorno e penso, invento. La mia giovinezza è nella capacità di sognare.
R.B.: Il pensiero, il sogno, la creazione. Capirne i percorsi ha un grande fascino. Il suo lavoro è fatto di aggressione diretta della materia. Perché?
R.M.: Perché il modello ti limita. Picasso diceva: io non cerco, io trovo. Se quando scolpisci hai già un modello precostituito arrivi al punto da cui sei partito. Pensiamo alla poesia: è il momento della scrittura che fa esplodere la mente. Così è per me con la scultura: io voglio essere poeticamente scultore. Perciò sono molto critico con l’arte contemporanea che non scolpisce. Mi pare più design, arredo urbano. Anche con certa critica d’arte lo sono: scrivere di un’opera non è descriverla ma esplorare il processo di genesi. I grandi critici del passato studiavano profondamente, molti oggi fanno i protagonisti in tv.
R.B.: Torniamo al marmo, alla sua forza, alla sua poesia. Qual è il collegamento tra la materia che sceglie e il sogno a cui dar corpo?
R.M.: All’inizio non amavo il marmo bianco, lo trovavo algido, freddo. Poi sulle Cervaiole, nella “cava di Russia” dove a fine Ottocento estrassero il marmo per la chiesa di Sant’Isacco a San Pietroburgo, scopro questo bianco candido ma carnicino, di una trasparenza e un cristallo unico. I greci davano alle cose un senso: marmaros vuol dire luccicante, trasparente. In quel marmo lassù ho trovato scaglie stupende e ho fatto sculture dolci, carnali. Mi sono accorto che questo era il marmo greco, come quello di Paros. E solo quello delle Cervaiole ha questa possibilità poetica. Ma non ti regala nulla. Non puoi saltare neanche un piccolo scalino oppure il risultato è negato.
R.B.: E cosa la spinge a volte verso altri materiali?
R.M.: La sorpresa. La pietra è più facile da lavorare. È più dolce, meno sovraumana. Con una subbiata, scoppiando o lasciandola grezza, già racconta la sua vita con il colore. Il marmo bianco no, se non gli dai la forma fino in fondo, se non lo spolpi, non si dà. E poi la velocità: con il travertino in un giorno tiri fuori un busto femminile. Con il marmo per arrivare in Paradiso devi passare dall’Inferno, come Dante.
Marmo 9, pag 66
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