Marmo e ricerche dell'arte concettuale in Italia

Marmo e ricerche dell'arte concettuale in Italia - Architettura/Design/Arte
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Salvo, Luciano Fabro, Antonio Trotta: tre protagonisti

Saggio Critico a cura di Luca Beatrice

È normativa la convinzione che nella ricerca attorno alla scultura, l’utilizzo di materiali caldi, fortemente connotato nel rapporto con la tradizione, rappresenti un ostacolo verso l’approccio più contemporaneo, in particolare in direzione dell’arte concettuale.

Pur nella sua straordinaria magniloquenza, il marmo, sinonimo di bellezza che inevitabilmente tende al neoclassicismo e al monumentale, ha subito quella stessa mutazione genetica che altri materiali, magari meno nobili, sono stati costretti ad affrontare per guadagnarsi la patente di accettazione all’interno del cosiddetto contemporaneo.
Necessaria però una premessa. Quell’atteggiamento di assurda diffidenza nei confronti della storia tende a modificarsi con l’ingresso nell’era postmoderna, quando finalmente il passato diventa un archivio della memoria con cui fare i conti, quando si può scegliere di prendere e utilizzare ciò che serve in chiave di rivisitazione di stile e linguaggio. La pittura forse ci arriva prima, ma è indubbio che verso la fine degli anni Settanta si rovescia il paradigma ideologico di un’arte (e di una cultura) incentrata sull’effetto evoluzionistico. Il che non vuol dire, necessariamente, un atteggiamento nostalgico verso il passato, semmai una nuova presa di coscienza. Con il prima non siamo più conflittuali e anche il ritorno alla manualità del fare può infine dispiegarsi con maggior serenità.

Di tale cambiamento, paradigmatica e anticipatrice fu la mostra “La ripetizione differente” curata da Renato Barilli allo Studio Marconi di Milano nel 1974. Il critico bolognese, nell’accostare le esperienze della Pop all’Arte Povera, la pittura figurativa alla citazione del classico, puntò il dito sulla necessità di una svolta. Tra gli artisti invitati, Salvo compì la definitiva scelta della pittura, cominciata nel 1973 e mai più abbandonata, fino alla morte avvenuta nel settembre 2015.
Ancor prima, 1970, Salvo eseguì Lapidi in marmo su cui incise parole o frasi, enigmatiche e appunto lapidarie, quali “Idiota”, “Respirare il padre”, “Io sono il migliore”. Oppure l’elenco di quaranta nomi comprendenti pittori, filosofi, poeti, scrittori, primo Aristotele e per ultimo, maliziosamente, il proprio. Pur maturate nel contesto dell’Arte Povera, che Salvo fiancheggiò senza mai appartenervi, le Lapidi “mostrano nelle connotazioni monumentali e arcaizzanti un carattere peculiare e precorritore della sua futura ricerca”. Una serie breve, continuata fino al 1972, con iscrizioni varie, dal testo assiro del Lamento di Assurbanipal alla parabola di Esopo per La tartaruga e l’aquila.

Sono le premesse del Salvo archivista, mnemonico, catalogatore, che sceglie di classificare prima che pensare. Con lui l’arte concettuale che rimanda ai lavori di Joseph Kosuth si fonda con la monumentalità mediterranea del marmo.
Tra i protagonisti dell’Arte Povera, Luciano Fabro è tra i pochi ad aver insistentemente indagato sul classico. Nato a Torino nel 1936 e scomparso a Milano nel 2007, il solo del gruppo a scegliere di vivere e operare in Lombardia, Fabro si definì senza dubbio uno scultore, termine tabù per l’epoca così fortemente connotata nel segno della novità a ogni costo. Coeve di Salvo le sue prime esperienze col marmo: Spirato, 1973, è la prima scultura realizzata con il nostro materiale. “Lo scultore – diceva – calcola il rapporto tra l’immagine e il lavoro, deve vedere nel ferro, anche se non lo sa, che è battuto e nella ghisa, deve sentire invece che è colata e nel marmo deve sentire che la figura è dentro, battuta dentro”.

Nei lavori in marmo, che lo accompagneranno a tratti per tutto il percorso, Fabro sosteneva che di fronte a “diffusi sintomi di inselvatichimento della caduta concettuale” si poteva parlare sottovoce, tornando al “pensiero puro”. Gli bastava anche solo una meravigliosa grande scaglia di marmo per cogliere l’essenza.
Nel 1982 Flaminio Gualdoni curò al PAC, ancora Milano, l’importante mostra “La sovrana inattualità”. Riflessione sulle ricerche plastiche degli anni Settanta. Apposta non si parlava di scultura, condizionato dal dogma martiniano della “scultura lingua morta”.
Perché inattuale, dunque? “È, appunto, la scelta dell’inattualità, il rischio sollecitato e accettato di fare arte per se stessa, la volontà di contraddire nei fatti (e quindi senza ricreare alternative ideologiche e teoriche) quel falso stato di necessità che la ingabbia dall’esterno. Del resto non si tratta di un atteggiamento affatto nuovo, frutto di riflessioni recenti e di una reazione magari contingente: piuttosto, è il recente collasso della ricerca artistica e della critica commilitante che ha fatto maturare spunti e fattori presenti almeno da quelli che abitualmente si considerano gli inizi dell’arte moderna”. Tutto il contrario della riserva indiana, secondo Gualdoni la scultura pulsa d’energia.

Alla mostra partecipò Antonio Trotta, che pochi anni dopo, nel 1990, realizzò una grande sala personale alla Biennale di Venezia. Nato nel 1937 a Stio in Cilento, “italiano d’argentina” cresciuto a Jorge Luis Borges e Omar Sivori, Trotta vive da diversi decenni a Pietrasanta dove ha ulteriormente sviluppato il suo amore laicamente fideistico per la scultura. È lì che lo incontrai per la prima volta, inizio anni Novanta, mentre preparavo una rassegna sui Disegni di scultura, ed è sempre lì che ho raccolto i suoi pensieri per il catalogo della personale da Enrico Astuni in un’intervista senza fine e senza filo conduttore apparente. Persona difficile, controcorrente, scomodo, asistemico e altrettanto geniale, Trotta ha lavorato un’idea di plastica fintamente arcaica, attraversata da solide matrici letterarie e filosofiche, dimostrando come anche un’immagine può rinsaldare il legame con il contemporaneo. Il suo amore per il marmo, classicamente ancorato al fare, non gli ha certo impedito di sviluppare un pensiero teorico che, almeno da noi, rappresenta la fierezza di unicum.
Artifex è tra i lavori che meglio ne rappresenta la sua predisposizione a giocare con l’enigma. Oltre il tempo, presente e passato. In fuga dalla storia.

Marmo 6, pag 24

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