Di Aldo ColonettiEssere consapevoli che la possibilità di cogliere la dimensione estetica delle cose dipende da noi e non solo dall’opera che guardiamo.Ciò che ci permette di vedere l’Arte è la libertà che conserviamo nel nostro approccio al mondo.Senza la relazione libera tra la persona e la “cosa” non potrebbero esistere il design, la moda, l’architettura e l’arte.ADA è un acronimo inventato da Paolo Carli, presidente di Henraux, che rappresenta “Arte Design Architettura”, ovvero riconoscere la primogenitura della dimensione estetica rispetto a tutti gli altri valori messi in campo dalle discipline progettuali.
Estetica dovunque è il titolo del primo volume delle opere complete di Gillo Dorfles, uscito da Bompiani nel 2022, a cura di chi scrive con l’introduzione di Massimo Cacciari. In particolare, Cacciari sottolinea che: «L’importanza del suo pensiero è ormai qualcosa di saldamente acquisito a livello internazionale: l’estetica non può limitarsi a una “teoria generale”, ma deve misurarsi con la concretezza del prodotto artistico e mettersi alla prova nella sua capacità di giudicarlo non secondo astratti metri di valori, ma nel suo farsi, nel suo costruirsi».
Esistono discipline che implicano calcoli e regole da memorizzare, oppure saperi e percorsi conoscitivi, come “la scienza del bello”, dove le regole sono da imparare, via via con la propria esperienza e la propria soggettività. L’arte ha questa capacità di andare oltre il fatto empirico per trarne un significato in sintonia con ciascuno di noi.
Diversamente, uno scienziato può spiegare dettagliatamente la nascita di un arcobaleno, ma non di certo i ricordi che in noi ne derivano, perché legati alla nostra soggettività e alla nostra libertà.
Arte e libertà rappresentano, infatti, la prima condizione per esprimere un giudizio estetico, ovvero: davanti a una scultura di Michelangelo non nasciamo “imparati”, ma siamo in grado di cogliere l’universalità anche in una sola particolarità, in un’intuizione che lega un particolare ricordo e una specifica sensazione a una determinata forma che sembra venire da lontano. Ma poi, se alziamo lo sguardo rivolto al Monte Altissimo dove il nostro artista andava a cercare il marmo migliore, allora comprendiamo meglio cosa significa dare forma a un’idea attraverso, certamente, una determinata sensibilità che non avrebbe mai trovato la sua “concretezza” se non avesse trovato il materiale e gli strumenti adatti per portare a termine l’opera.
Arte dovunque e in ogni luogo significa essere consapevoli che dipende da noi – e non solo dall’opera – la possibilità di cogliere la dimensione estetica delle cose, sempre e in ogni esperienza, anche quella apparentemente più marginale rispetto a un’immagine sacrale e museale dell’arte.
Immanuel Kant, il filosofo tedesco che nella seconda metà del ‘700 ha fondato l’estetica moderna come parte della filosofia, scrive nella sua opera fondamentale Critica del Giudizio (1790) che: «Alla pittura in senso largo io attribuirei anche la decorazione delle stanze con tappezzerie, e ogni bel mobile, che serva unicamente alla vista; così l’arte del vestire con gusto, anelli, tabacchiere. Perché un’aiuola di diverse specie di fiori, una stanza con molti ornamenti, compreso l’abbigliamento delle signore, costituiscono una specie di quadro che, come i quadri propriamente detti, stanno lì per mantenere l’immaginazione in un libero gioco con le idee ed occupare il Giudizio Estetico senza alcun scopo determinato.»
È la libertà che sta alla base di ogni attività artistica e progettuale, anche là dove appaiono determinanti le condizioni politiche ed economiche insieme ai materiali e agli strumenti necessari per portare a termine un’opera. Resta valida l’idea che non è sufficiente “produrre bene” un oggetto, badando solo alle sue determinanti specificità (funzionali per ottenere un prodotto in grado di mantenere nel tempo tutti quei valori, simbolici ed estetici che lo rendono unico). L’esperienza estetica delle cose è altro rispetto alle funzionalità pratiche di uno specifico strumento. Essa deve essere in grado di mettere in azione una serie di effetti simbolici, rituali e mitici, che non si esauriscono e quindi non si consumano nelle pratiche quotidiane di carattere ripetitivo. Se non c’è una relazione libera tra la persona e la “cosa”, in una sorta di dialogo infinito e senza tempo, non potrebbero esistere il design, la moda, l’architettura e – ovviamente – l’arte.
Il design ci fa riscoprire il piacere del “bello funzionale”, come la moda è capace di reinventare gli anfibi militari o lo zaino mostrandoli da un altro punto di vista – ovvero la loro dimensione estetica e simbolica – all’interno di una ritualità che è in grado di far rivivere – in modo diverso e completamente originale – un oggetto “banale” e di tutti i giorni.
Basti pensare alla rivoluzione estetica di Elio Fiorucci e alla comunicazione dei suoi prodotti realizzata – insieme al grande fotografo Oliviero Toscani – negli anni ’70 e ’80: portare nella moda la strada e i suoi comportamenti anonimi, i materiali e le forme che provenivano da altri ambiti tecnologici e produttivi, come ad esempio la plastica. Non è un caso che Fiorucci collaborò con Montedison in quanto il colosso chimico aveva intuito che la ricerca di nuovi materiali avrebbe potuto svilupparsi partendo da un nuovo sguardo sul mondo, completamente originale rispetto ai tradizionali atteggiamenti degli specialisti.
Come scrive Walter Gropius, fondatore della Bauhaus – la più importante scuola di progettazione del mondo non a caso chiusa dal nazismo –: «Gli specialisti sono persone che ripetono sempre gli stessi errori.»
Al centro di questa esperienza pedagogica e progettuale, c’era l’arte e alcuni dei protagonisti delle ricerche artistiche più avanzate di quegli anni come Paul Klee, Piet Mondrian, Vassilij Kandisky.
Il design – dalla Bauhaus ai giorni nostri – ci ha fatto scoprire il piacere del “bello funzionale”, così come Marcel Duchamp ci ha fatto riscoprire il significato misterioso anche delle cose più semplici e anonime, ad esempio una ruota di bicicletta, una vecchia macchina da scrivere o il water.Oggetti dove è sempre presente un valore estetico e simbolico che supera la semplice e banale funzionalità del prodotto.
Duchamp compie un’azione che ciascuno di noi avrebbe potuto fare: sceglie un oggetto con cui tutti hanno un rapporto strumentale e utilitaristico, lo sposta di contesto e lo dichiara un’opera d’arte. Ci costringe a guardare l’oggetto con un altro sguardo e con un diverso meccanismo mentale, mettendo parzialmente da parte la sua utilità e pensandolo come oggetto in sé.
Immaginiamo, solo come esempio, quanti possibili Duchamp potremmo avere se pensassimo ai grandi volumi geometrici di marmi diversi – posizionati nel grande piazzale di Henraux – non come materiali per l’architettura, il design o la scultura, ma in quanto opere che hanno in sé un valore estetico, non solo potenzialmente, ma in quanto tale.
Come a dire che ciascuno di noi è un artista e basta mettere in moto una nuova e più libera relazione con le cose. Allora è il pensiero a disegnare la realtà: Fare è pensare1.
L’arte, in sostanza, coincide con la nostra propensione verso la libertà svincolata dalle cose del mondo; è un percorso conoscitivo, e quindi per nulla accademico, ristretto solo a coloro i quali conoscono la storia dell’arte. Il grande filosofo tedesco Hegel lo diceva con chiarezza in quello straordinario “romanzo” che è una delle opere più importanti per comprendere il mondo, ovvero La fenomenologia dello spirito (1807).
Per Hegel l’arte, come la religione e la filosofia, si pone come un atteggiamento conoscitivo verso il mondo nel segno della libertà; ovvero tentare di andare oltre il finito, anche un semplice pezzo di marmo, per cogliere l’infinito, la dimensione estetica e simbolica che risiede nello sguardo di un nuovo modo di vedere e conoscere il mondo, al di là dell’apparenza.
Allora una pipa non è solo una pipa, ma anche una riflessione intorno al rapporto tra disegno e realtà come ci ha insegnato Magritte; una scultura di Michelangelo non è solo una scultura in quanto ci riporta alla natura da cui essa proviene, agli strumenti con i quali l’artista cerca di dare una forma concreta a un’idea di bellezza. Ma ancora, un cavatappi non è solo uno strumento ma una storia di una persona, come nel caso di Alessandro Mendini e il suo cavatappi Anna G.
Infine, un’architettura non è solo un contenitore, un riparo dalle intemperie naturali o una difesa dal nemico ma rappresenta sé stessa in quanto opera assoluta e autonoma.
Si potrebbe affermare questo? Certamente, solo nel caso di essere di fronte a un progetto come quello dell’architetto designer Mies van der Rohe e la Neue Nationalgalerie di Berlino che – dal 1968 – ci guarda, ospitale ma austera, autosufficiente sul piano estetico, in grado di ospitare qualsiasi espressione artistica e, contemporaneamente, assolutamente perfetta e autonoma nella sua composizione e nei suoi materiali.
Come se fosse un oggetto pensante e autonomo e non solo un prodotto dell’uomo.
Qui risiede il significato ultimo di qualsiasi opera dell’uomo, ma tutto dipende dall’essere in grado di pensare liberamente le cose del mondo. Arte e libertà stanno alla base del progetto contemporaneo.
Marmo 11, pag 72
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