Dall’architettura all’arte, e ritorno

Di Turan Duda, FAIA
Presidente fondatore di Duda|Paine Architects

Ogni progetto architettonico che utilizzi materiali lapidei, e il marmo in particolare, – come quello al 601 di Massachusetts Avenue, a Washington DC – è innanzitutto un “viaggio di scoperta”. Scoperta della materialità specifica di ogni pietra e della stretta commistione tra architettura e arte che non può – e non deve – mai essere elusa.


Lavoro con la pietra e la utilizzo per i miei edifici da oltre quarant’anni, e da trentadue collaboro con Paolo Carli – fin da prima che diventasse presidente dell’Henraux. In questo lungo periodo ho maturato diverse idee e concetti sull’utilizzo del marmo in architettura e, ogni volta che sono venuto in Italia, ho fatto nuove scoperte in proposito. Non uso la parola “scoperte” a caso: ogni viaggio ispira in modo esponenziale la mia visione creativa per quelli che saranno i miei successivi progetti artistici e architettonici.

La prima, e forse più importante, scoperta riguarda il comprendere la materialità di una pietra specifica. Questa comprensione è iniziata con una visita al Monte Altissimo e alle sue cave, vicino a Pietrasanta, in Italia. Qui, ogni architetto diventa consapevole dell’enorme sforzo umano che sta dietro all’estrazione del marmo, al trasportarlo giù dalla montagna e al doverlo plasmare cercando di concretizzare l’idea che si ha di quel materiale. Se ne comprendono anche i limiti, i difetti e la bellezza intrinseca. Il piccolo modello in marmo su cui riflettiamo in ufficio si rivela qui nella totalità di blocchi e lastre. E questo spesso porta a una completa rivisitazione di come verrà utilizzato il materiale.

La seconda scoperta si fa visitando l’Italia per vedere e vivere in prima persona i 2000 anni di pietra presenti nella sua architettura. L’utilizzo, nel corso della storia, del marmo e del granito in architettura, dall’antichità ai giorni nostri, ci fornisce già una chiave di lettura e una spiegazione. Una verità lapalissiana è che la pietra, plasmata da ogni generazione, ci parla: se ascoltiamo con attenzione, possiamo capire in che modo si sono susseguite e sono cambiate le voci di ognuna di esse. Lo stesso blocco di marmo nell’architettura dell’Antica Roma trova una voce moderna nelle mani di un designer come Carlo Scarpa. Sia che la trasformazione avvenga grazie alla tecnologia o alla mera intenzione artistica, i risultati sono profondamente diversi.
Una terza rivelazione ci arriva dal fenomeno degli artisti che pensano come architetti e degli architetti che pensano come artisti. Come ha affermato una volta lo scultore Isamu Noguchi: «Quando ho dovuto lavorare in spazi più grandi, li ho concepiti come giardini». Con il concetto più ampio di “giardino”, la dimensione del lavoro di Noguchi è cresciuta e spesso ha coinvolto molteplici pezzi collocati in allestimenti spaziali molto significativi. Lo stesso si può dire per Mimmo Paladino e l’installazione dal titolo “La Croce” che fece nel 2012 in Piazza Santa Croce, a Firenze. Paladino ha dichiarato: «Qui ho deciso di creare un luogo, non una scultura, utilizzando delle caratteristiche specifiche a cui potrei aggiungerne anche di nuove...».
Questo creare luoghi e improvvisazioni all’interno di un contesto dato è un’inclinazione naturale per gli artisti che utilizzano oggetti esistenti, trovati o inventati per creare un adattamento moderno di uno spazio architettonico prestabilito.

Noi architetti, al contrario, concepiamo i nostri edifici come forme scultoree oppure cerchiamo di spingere i limiti di uno spazio chiuso verso una nuova dimensione. Qui, la pietra gioca un ruolo fondamentale: quando una superficie in marmo viene lavorata, scolpita e levigata affinché diventi tridimensionale, riesce a interagire con l’uomo e assume un nuovo significato. Il bassorilievo che se ne ricava si espande oltre i confini di semplice rivestimento, diventando scultoreo ed elevandosi ad arte.
La scoperta finale nasce dall’esperienza di osservare l’arte e l’architettura attraverso la lente del tempo e del movimento. Il concetto è spiegato magnificamente da Noguchi: «Io credo che la scultura sia un’arte che può essere apprezzata solo allo stato grezzo, che si debba relazionare all’essere sempre in movimento dell’uomo, al passare del tempo e alla sua condizione sempre in costante trasformazione». Questa idea, quella del movimento attraverso e all’interno degli edifici, è quella che mi incuriosisce di più. Quando si entra in una stanza grazie a un’apertura incorniciata che ci conduce a un fenomeno artistico concepito per essere visto prima di procedere a quello successivo del percorso, allora l’esperienza che stiamo vivendo diventa cinematografica. Tali momenti artistici sono possibili solo se integrati dall’elemento sorpresa. O questo fenomeno ci viene rivelato inaspettatamente, oppure la nostra aspettativa convenzionale di quel tipo di materiale viene alterata in modo straordinario.
Questa idea viene trasmessa bene nel nostro progetto per il 601 di Massachusetts Avenue, a Washington DC. L’opera d’arte in marmo serve da punto di riferimento per orientare e guidare i visitatori che entrano ed escono dalla grande hall dell’edificio. La scultura verticale in marmo bianco di Giovanni Balderi è stata fondamentale per la nostra visione e organizzazione dello spazio: rappresenta infatti un potente perno al centro di due assi allineati con gli ascensori. Le tre pareti della hall rivestite in travertino si interrompono improvvisamente e la pietra prende vita come se fosse una tenda ondulata tridimensionale. Questi diversi momenti vengono percepiti mentre ci si muove attraverso lo spazio della hall, e assumono significati differenti a seconda che vengano percepiti da lontano o da vicino.

In definitiva, è il processo di immaginazione e di invenzione che rende l’utilizzo della pietra naturale un mezzo di espressione eccezionale. Nel corso degli anni ho visto Paolo Carli e l’Henraux spingersi oltre i limiti di ciò che si può ottenere dal marmo, grazie sia alla loro esperienza e conoscenza del materiale sia all’investimento nella tecnologia robotica più innovativa. Vivendo a contatto con il lavoro degli artisti, Paolo Carli riesce sempre a fornire gli elementi giusti per il linguaggio architettonico. La sua abilità nel promuovere le loro capacità e quelle del materiale stesso testimonia la meravigliosa sperimentazione che viene realizzata nel suo cantiere.
Su di me ha avuto un’influenza profonda. Mi piace esplorare continuamente, cercando nuove forme di espressione della pietra in architettura. Nella mostra di Henraux per Marmomac nel 2009, la creatività di alcuni artisti emergenti e la tecnologia necessaria per realizzare le loro idee hanno ispirato una parete composta da elementi che si ripetono e che riproducono un movimento ondulatorio. Alla fine, un semplice filo ha tagliato il marmo bianco del Monte Altissimo per fabbricare un piano che si deforma e si inclina. Ne sono stati fatti diversi, per dare vita a un motivo a nastro che rivela le inimmaginabili possibilità di utilizzo che ha il marmo in architettura.

Penso all’architettura come a una performance con una sceneggiatura adattabile composta da numerosi e stratificati momenti di scoperta. Il “cast” di tale performance è composto dalla luce, dal materiale, dalle proporzioni e dal movimento. Se penso alla pietra come protagonista dell’opera, mi chiedo: che cosa vuole comunicare? Qual è la sua personalità? Quale emozione umana può evocare? Immaginare che una lastra di marmo inerte abbia una personalità può sembrare un po’ strano, eppure tutti rispondiamo in modo viscerale davanti al colore, alla trama e alla texture della pietra. Riconosciamo che ha una storia e che, quando plasmata dall’uomo, la pietra si arricchisce di una narrazione che incarna il progetto artistico.

Marmo 10, pag 65

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